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I conti pubblici italiani nel 2024 hanno segnato un netto miglioramento, superando le aspettative iniziali. Secondo l’ultimo bollettino Istat, il deficit è sceso significativamente dal 7,2% al 3,4% del PIL, avvicinandosi al fatidico limite europeo del 3%. Anche il saldo primario, al netto degli interessi, è tornato positivo, attestandosi allo 0,4% del PIL. Questo quadro positivo emerge nonostante una crescita economica “asfittica” pari a un modesto +0,7%, trainata principalmente dai due giorni lavorativi in più rispetto all’anno precedente.
Meno spese e più entrate
Il sorprendente risanamento dei conti, stando a quanto scrive su Lavoce.info Massimo Bordignon, Vicepresidente esecutivo dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, è attribuibile a due fattori principali: in primo luogo, una drastica riduzione di circa 41 miliardi di euro nelle spese della pubblica amministrazione. Questa contrazione è dovuta, in larga parte, al crollo dei contributi agli investimenti, categoria che includeva le agevolazioni edilizie del Superbonus, di fatto sospese da marzo 2024.
In secondo luogo, le entrate dello Stato hanno registrato un notevole aumento nominale del 5,7% rispetto al 2023, superando di gran lunga la crescita nominale del PIL (2,9%). Di conseguenza, la pressione fiscale è salita di 1,2 punti percentuali, passando dal 41,4% al 42,6%. Questo si traduce in un incasso aggiuntivo per lo Stato di 26 miliardi di euro nel 2024, di cui 7 miliardi sono facilmente spiegabili con il ripristino delle accise sui carburanti, precedentemente ridotte dai bonus contro il caro energia. Ma da dove provengono i restanti 19 miliardi?
Pressione fiscale in aumento
Molti, inclusa la Presidente del Consiglio, hanno correlato l’incremento della pressione fiscale al buon andamento dell’occupazione. I lavoratori dipendenti e i loro redditi sono effettivamente cresciuti rispettivamente del 2,3% e del 5,2%. Tuttavia, l’Istat rivela ragioni più complesse e meno rosee.
Il primo motivo risiede nella diversa tassazione dei redditi. I redditi da lavoro dipendente, pur rappresentando solo il 38% del PIL, generano il 49% delle entrate fiscali totali (imposte e contributi). Al contrario, i profitti, che costituiscono il 50% del PIL, contribuiscono solo per il 17% alle entrate. Questa sproporzione implica che una crescita dei salari, anche a parità di aliquote, innalza la pressione fiscale in modo più incisivo rispetto a una crescita dei profitti. Nel 2024, i profitti hanno subito una lieve contrazione, mentre i salari sono aumentati (grazie a nuovi occupati e aumenti medi), contribuendo così all’incremento della pressione fiscale. I dati mostrano una correlazione molto forte negli ultimi dieci anni: maggiore è la differenza tra crescita dei salari e dei profitti, maggiore è l’aumento della pressione fiscale.
Il “Fiscal Drag” e l’amara verità dietro gli aumenti
Una seconda ragione, definita “ancora più deprimente”, è legata alla progressività dell’Irpef sui redditi da lavoro dipendente e al fenomeno del “fiscal drag”. L’Irpef è un’imposta progressiva, il che significa che l’aliquota media aumenta all’aumentare del reddito. Questo principio di equità, tuttavia, si applica quasi esclusivamente ai redditi da lavoro dipendente (che costituiscono l’85% della base imponibile Irpef), mentre altri redditi, come quelli degli autonomi con flat tax, sono tassati in modo proporzionale. Di conseguenza, l’aumento dei redditi dei dipendenti nel 2024, dovuto in parte ai rinnovi contrattuali, ha comportato un innalzamento dell’aliquota media Irpef e, di riflesso, della pressione fiscale.
A ciò si aggiunge la “beffa” del fiscal drag. Negli anni di forte inflazione (2022-2023), le imprese sono riuscite a difendere i propri profitti scaricando i costi sui prezzi, mentre i salari hanno perso potere d’acquisto. Il fisco ha continuato a tassare i redditi nominali senza considerare la perdita di valore reale. Nel 2024, parte degli incrementi salariali è servita a recuperare il potere d’acquisto perduto. Tuttavia, per il fisco questi incrementi sono conteggiati come aumenti effettivi di reddito e tassati ad aliquote superiori, alimentando ulteriormente la pressione fiscale.
In sintesi, il miglioramento dei conti pubblici nel 2024, sebbene numericamente positivo, nasconde una realtà economica complessa, dove l’aumento della pressione fiscale grava in modo significativo sui redditi da lavoro dipendente, spesso senza un reale incremento del potere d’acquisto.